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Hanno staccato la spina alla legge

• da Left Avvenimenti del 22 giugno 2007, pag. 80

di s.m.

Sembrava l'obiettivo facile da raggiungere in questa legisla­tura, quello più condiviso dal­le forze politiche che, illo tempore, firmarono il patto dell'Unione. E, invece, dopo il naufragio dei Pacs e dei Dico anche la legge sul testamento bio­logico è a rischio archiviazione. I teo­dem, si sa, si sono messi di traverso bloccando il testo preparato da Ignazio Marino. «Perché di una legge non c'è nessun bisogno», come ha sentenziato Paola Binetti nel silenzio totale di Fassino e compagni. E nonostante sul tema del testamento biologico siano stati de­positati ben 10 disegni di legge, (di cui uno messo a punto dalla Fondazione Veronesi), il governo sembra volere l'eutanasia del dibattito pubblico. Ma il tema è cogente, tocca in modo diretto la vita delle persone. Prova ne è anche la quantità di libri usciti su questo tema negli ultimi mesi. Fra i quali ci preme segnalarne due, particolarmente im­portanti: in primis il documentatissimo e, per molti versi, sconvolgente, libro di Andrea Boraschi e Luigi Manconi, II dolore e la politica (Mondadori, 200 pagine, 13 euro), che offre fondamentali ele­menti di conoscenza del­la situazione italiana, facendo emergere non tanto e non solo i dati sulla diffusione dell'eutanasia clandestina nel nostro Paese, ma anche smascherando la micidiale confusione di termini e di contenuti che si conti­nua a fare, a tutto discapito dei diritti dei malati. Il caso Welby in questo sen­so è stato, purtroppo, emblematico. Ma un dato deprimente è anche che il 42 per cento dei medici italiani,intervistati su eutanasia e testamento biologico ammetta di avere «una scarsa cono­scenza dell'argomento».

 

È costruito conte un viaggio attraverso l'Italia, invece, il nuovo libro di Adriana Pannitteri, Vite sospese (Aliberti Editore, 276 pagine, 17 euro). Come se fosse al fianco il cameraman che la segue nei suoi servizi, l'inviata del Tgl ci fa entrare in rapporto vivo, pagina dopo pagina, con il dramma quotidiano di persone af­fette di sclerosi laterale amiotrofica, co­me lo era Luca Coscioni, di distrofia muscolare come Piergiorgio Welby, ma an­che quelle persone come Peppino Englaro, padre di Eluana da quindici an­ni in stato vegetativo. Al­l'opposto di Welby che aveva una mente lucidis­sima in un corpo che ave­va perso quasi ogni sua autonoma funzione, Eluana ha un corpo ancora giovane ma la sua testa è azzerata. Dopo un inciden­te è entrata in stato vegetativo perma­nente. Anni prima Eluana aveva visto un amico in quello stato e la sua reazione era stata: se toccasse a me non vorrei es­sere tenuta in vita artificialmente. Ma la battaglia di Peppino Englaro perché venga rispettata la sua volontà è ancora incagliata nelle aule di tribunale. Da cronista Pannitteri ci racconta le motivazio­ni concrete e profonde che spingono le persone a chiedere una legge sul testamento biologico come atto, minimo, di civiltà. Fra queste anche il dottor Mario Riccio, il medico anestesista di Cremona, che ha aiutato Piergiorgio Welby a mori­re somministrandogli quella certa dose di sedazione che gli permettesse di non andare incontro a un'agonia atroce, una volta staccato il respiratore. «Sono stato accusato di tutto, anche di essere freddo, di non mostrare emozioni - racconta il medico alla giornalista -. Ma io ho fatto quello che la mia coscienza mi chiedeva e ho dato seguito alle mie convinzioni che non nascono da un giorno all'altro ma sono frutto di una riflessione profon­da». Riflessioni che riguardano la buona pratica medica, ma anche la bioetica e, soprattutto, il rapporto con il paziente. «Io non mi sento e non sono un assassi­no», ribadisce Riccio, nel libro. «Si è trattato di dare ascolto ad un paziente le cui condizioni erano ormai disperate».

 

E poi ricordando Welby: «Non è vero che per me era uno sconosciuto. Abbiamo creato un rapporto profondo. Welby mi ha affidato la sua vita e le sue ultime pa­role sono state grazie... mi sono compor­tato secondo coscienza e anche tutti quelli che si sono permessi di giudicare la sofferenza di Welby sono in malafe­de». Nelle parole di quel medico schivo -che dal libro scopriamo aveva pensato di fare lo psichiatra, al centro la questione dell'alleanza terapeutica, del rapporto medico paziente, quello fra il dottor Ric­cio e il paziente Welby, che proprio in questi giorni, torna ad essere messo sot­to accusa. Anche dopo che l'Ordine dei medici ha dichiarato che non c'è stata violazione di legge, perché non si è trat­tato di eutanasia. L'attacco è partito an­che dall'ex presidente della Repubblica Cossiga che non ha trovato niente di meglio da fare che denunciare il dottor Ric­cio. A questo, il 10 giugno si è aggiunto un fatto ancor più grave: il gip del Tribu­nale di Roma, Renato Laviola, ha re­spinto la richiesta di archiviazione del caso Riccio firmando un'ordinanza in cui si dice che il diritto alla vita è «sacro inviolabile e indisponibile». E che costi­tuisce «un limite invalicabile da tutti gli altri diritti». Compreso quello costitu­zionale dell'autodeter­minazione, fissato nel­l'articolo 32 della Car­ta, secondo cui nessuno può essere obbliga­to al trattamento sani­tario. Parole che ci aspetteremmo dal pa­pa e che invece sono state scritte da una istituzione laica. Ma Laviola insiste che sulla morte del leader radicale avrebbe­ro influito media e politica. E se questo suona come un tentativo di negare il co­raggio e l'importanza della battaglia po­litica di Welby che ha usato la propria malattia per aprire un dibattito su diritti civili che riguardano tutti, pare ancor più inaccettabile che un giudice parli ideologicamente di «limite insuperabile del diritto alla vita».

 

Di fronte a questo si staglia illuminante l'intervento della psichiatra Annelore Homberg raccolto da Pannitteri nel suo libro (accanto a quelli di Zagrebelsky, di Mori e di Marino) e che invita a riflettere sul significato di parole come «qualità della vita» e «dignità della persona». Su questi grandi temi, nota la psicoterapeu­ta e docente dell'Università di Foggia, si sente la massiccia ingerenza delle Chie­se. «Lo stiamo vedendo - dice - nel dibat­tito sull'eutanasia. Ma stiamo anche ve­dendo come le posizioni delle Chiese vo­gliano tradursi in legis­lazione e prassi medica che penalizzano le donne, il rapporto fra uomo e donna, la ses­sualità». Di fronte a questo "assalto" è come se la medicina avesse ancora «un'identità piena», come se non sapesse esprimere un rifiuto della men­talità cristiana che impone la sofferenza come espiazione. «Oggi la medicina - spiega Homberg - non su tutto si muove con certezza. Oggi i medici riderebbero in faccia a chi sostiene che il fegato stia sotto la mano sinistra. Ma non reagisco­no ancora allo stesso modo quando qualcuno sostiene che un ammasso di cellule indifferenziate sia già vita umana e persona». Forse, suggerisce la psichiatra, per completare la medicina occorre una psichiatria che propone idee fonda­te su come è fatta la realtà mentale sana quando inizia e quando finisce.



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